Made in Eat-aly
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| 2016 | Investo Italy | News
| Febbraio 2016 | 2706 Visite | con Commenti disabilitati su Made in Eat-aly

Nell’era dell’economia reale trasformata in schiava della finanza globale, non andrebbe dimenticato che se l’uomo vive non di solo pane, di sicuro non vive senza cibo. Ed allora, mentre ripartono i negoziati per il Ttip (l’accordo commerciale tra Europa e Stati Uniti), bisognerebbe prestare attenzione alle posizioni di Confragricoltura. Che, più ancora di Coldiretti, è espressione di aziende agricole medio-grandi. Dunque quelle anche più vicine all’industria alimentare.

Ma chi si aspettava una totale apertura in vista di questo nuovo round dei negoziati, è rimasto deluso. Proprio Confagricoltura ha posto, giustamente, dei paletti. Perché in nome del libero mercato non si può accettare che l’Italia rinunci al proprio comparto agricolo, schiacciato tra la carne agli ormoni degli Usa, i pomodori al pesticida in arrivo dalla Cina, gli agrumi senza controllo che sbarcano dall’Africa del Nord.

Bisogna tutelare gli agricoltori italiani e bisogna difendere la qualità che esprimono. Pur nella consapevolezza che la crisi economica italiana è più drammatica di quanto si sostenga e saranno sempre meno gli italiani che potranno permettersi di acquistare la qualità del made in Italy. Assolutamente ingiusto, certo. Ma se si rinunciasse alla qualità della nostra agricoltura si andrebbe solo incontro ad un ulteriore aumento dei poveri nel nostro Paese. L’agricoltura rappresenta, comunque, un polo economico importante, con ricadute occupazionali che partono dai campi ed arrivano sino all’industria agroalimentare senza dimenticare la distribuzione organizzata o tradizionale.

Ma oltre a difendere la salubrità degli alimenti dall’offensiva statunitense, Confagricoltura chiede che i negoziati garantiscano finalmente quella trasparenza che finora è completamente mancata. Forse perché molti hanno interessi all’opacità. Ed è curioso notare che, mentre alcune multinazionali promuovono il cibo made in Italy, proprio alcune industrie alimentari italiane preferiscono ignorare la provenienza della materia prima, nella convinzione che sia sufficiente l’Italian sounding per ingannare il consumatore finale.

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