IRENE GRANDI, IL SALENTO, IL JAZZ E UN VENTO SENZA NOME
di

| , , ,
| 2016 | Investo Woman | News
| Agosto 2016 | 4207 Visite | con Commenti disabilitati su IRENE GRANDI, IL SALENTO, IL JAZZ E UN VENTO SENZA NOME

Si è conclusa nei giorni scorsi, nel cuore del Salento, la rassegnainternazionale diretta dal sassofonista Raffaele Casarano, in collaborazione con il Ministero per i Beni e le attività Culturali, la Regione Puglia, il Teatro Pubblico Pugliese e il Comune di Lecce: il Locomotive Jazz Festival. Undici giorni di concerti e un epilogo che si è consumato all’interno dell’anfiteatro romano di Lecce, in piazza Sant’Oronzo, quando a 24 ore dalla chiusura è salita sul palco una grandissima Irene Grandi, ancora alle prese con la promozione di Un vento senza nome, il decimo album in studio, pubblicato lo scorso febbraio dalla Sony Music. L’omonimo primo singolo estratto è stato presentato dalla cantautrice all’ultimo Festival di Sanremo. Un disco fresco ma allo stesso tempo più intimo e consapevole del precedente lavoro (Alle porte del Sogno, 2010), pieno di coraggio e di forza nell’aprirsi a nuovi orizzonti. Esattamente quelli che Irene ha scoperto in questi giorni in Puglia.

Jazz Game è il tema dell’XIª edizione del Locomotive Jazz Festival. Un gioco sano, un soldato che, nella locandina, al posto di un’arma impugna una tromba. Come ci sei arrivata in quest’anfiteatro?

A Lecce sono arrivata dopo una telefonata del jazzista Michele Papadia, che conosco molto bene anche perché anche lui vive a Firenze da tantissimi anni, pur essendo pugliese di origine. Ci raccontava che aveva lasciato il suo paese per andare a Milano ma non ce l’aveva fatta e invece poi da 26 anni ha trovato una seconda casa a Firenze: non credo sia un caso dal momento pare proprio che Lecce sia la Firenze del Sud. Ci deve essere effettivamente qualcosa che unisce queste due meravigliose città. Lecce è storica, bella, elegante, turistica ma non troppo, grande ma non tanto, affascinante. Michele mi ha detto che c’era la possibilità di suonare in un posto molto bello, trovando dei punti di incontro, suonando insieme qualcosa anche per una buona causa, nobile, benefica. Abbiamo aderito al tema del Festival e il resto è storia.

Triacorda è la Onlus che segue la costruzione del Polo Pediatrico Salentino, alla quale è stata devoluta l’intero incasso della serata. Allora è ancora possibile fare del bene? 

Penso proprio di si: il volontariato e il fatto che ci sia gente che ha voglia di fare qualcosa per gli altri sta riempiendo la vita delle persone e non solo di quelle che ne beneficiano, ma proprio dei volontari. Parliamo di vere e proprie esperienze trasformanti. Quando facevo pop, i primi anni, mi dicevano che le cose di beneficienza non si potevano fare, mi avevano sconsigliato di aderire e purtroppo ho cominciato solo negli ultimi anni a dare il mio contributo cantando. L’atmosfera che respiri, in circostanze come questa, è diversa: il pubblico è ben disposto, hai la sensazione che tutti vogliano creare un legame, un ricordo. La sensibilità di chi viene a sentirti è diversa e in questo caso parliamo di una predisposizione non solo all’ascolto ma anche al cambiamento ed è proprio questo a regalare emozioni anche agli artisti che come me salgono su quel palco.

Cos’è il jazz per te? 

È una cosa che mi affascina, della quale non c’ho mai capito granché ma che ho imparato a conoscere attraverso i musicisti che lo praticano. Ho dei jazzisti che mi sono sempre piaciuti, come Chet Baker o Nina Simone, se la vogliamo considerare una cantante jazz, però non è una musica che ho mai tanto seguito. Diciamo che attraverso l’amico Stefano Bollani, che c’è nella mia vita sin da quando si era ragazzetti, ho imparato a conoscerlo,perché vai a vederlo suonare una volta, vai a sentirlo altre due volte, tre, dieci volte con altrettanti progetti diversi e inizi a distinguere anche le cose. Il disco, fatto in duo con Stefano Bollani, era un lavoro dove alla base del tutto c’era un incontro tra la canzone e il jazz. Il tappeto che mi faceva sotto era jazz e quando eravamo dal vivo me ne accorgevo sempre, anche perché cambiava ogni volta.

Amiche in Arena andrà in scena il 19 settembre a Verona. Sei tra le rocker che saliranno sul palco per un evento contro la violenza sulle donne e nel frattempo in questi giorni altre due donne sono state ammazzate dai loro uomini. Perché non ne usciamo vive?

Perché bisognerebbe uscirne prima di farsi ammazzare. Sono argomenti talmente difficili da affrontare che forse non avrei neppure dovuto dire quello che ho appena detto, però, veramente,bisognerebbe sforzarsi di conoscere le persone che abbiamo accanto e quando si capisce che le cose non vanno… andar via,prima che sia tardi. Non so perchè si arriva al punto di non ritorno ma credo che ci sia una preparazione alla violenza: come dire, prima ci sono i pensieri, poi le parole, solo dopo si arriva probabilmente alle azioni. Quando arrivano le parole violente, troppe, gli insulti, la donna, abituata a stare, da sempre, accanto all’uomo e a non abbandonarlo nel momento di difficoltà, dovrebbe lasciarlo perdere per sempre.

Un vento senza nome è il tuo decimo album. Cosa c’è dentro?

C’è molta introspezione, è un album diverso dagli altri con temi che non sono più solo legati all’amore. C’è l’idea di guardare la vita in un certo modo, come dire che le cose che accadono sono più neutre di quello che spesso siamo portati a pensare, perché infondo dipende da come le prendiamo se poi le stesse diventano drammatiche, se ci feriscono, se riusciamo a farcele scivolare. L’omonima canzone invita all’ascolto di se stessi, invita a sentire il vento, quello interiore che non ha nome perché è ogni volta nuovo, ogni volta tuo. Solo ascoltandosi si riesce a cambiare le cose prima che sia troppo tardi.

Sei nata con Roxy Bar nel ’93 e sbocciata con Jovanotti che firma per te una canzone. Facciamo un bilancio?

La cosa che mi è piaciuta di questo lavoro è che mi ha da sempre permesso di dialogare tanto con gli altri, musicisti, collaboratori, pubblico, andando a cercare/creare un incontro musicale a più “voci”. Non riesco a fare musica da sola e in questo sono rimasta la stessa di sempre.

Cos’è la musica per te?

E’ l’unico modo che conosco per comunicare, non solo con il mio pubblico ma anche con tutte le persone con le quali faccio musica e proprio per questo mio modo di intenderla, la mia musica cambia sempre, perché cambiano le persone che incontro nella vita.

Sei felice?

E come potrei non esserlo… guardati intorno.

Condividere questo articolo:

Commenti chiusi